sabato 22 settembre 2012

Hair (ovvero, i gatti se ne fregano della Storia e continuano a dormire sul divano)



Esco piangente anche da questa visione (ho il sospetto di essere una frignottona patologica, o ormai di sentire troppo intensamente le spinte della senilità...)
Mi vedo "Hair" in compagnia di una Bagigia ronfante (beata asensibilità felina, solo amore tattile della padrona, baciotti e croccantini, voglio rinascere gatto), e piango su tutte le guerre, su tutte le vittime di guerra, in una giornata della Pace speranzosa quanto utopica.
L'uomo non può conoscere la pace, non possiede gli ormoni giusti. Le donne forse, se non lo imitano.
"Hair" è un film vecchiotto ma non eccessivamente datato. Cambiano i cimiteri di guerra ma la sostanza è la stessa.
Il giovane americano agnello sacrificale Claude (il concetto della guerra del Vietman viene così sintetizzato: gente dalla pelle bianca che manda in guerra gente dalla pelle nera contro gente dalla pelle gialla per difendere una terra strappata a gente dalla pelle rossa. Un trattato di storia in pillole) incontra il suo speculare Puck, il Re del Disordine chiamato Berger (un Treat Williams rucolotto ma moooolto appetitoso, anche per gli standard odierni) e vivacchia tra gli hippies per un paio di giorni, prima di andare alla base militare premattatoio. (I vestiti! E' chiaro che gli stilisti milanesi come li chiama Elio delle Storie Tese si ispirano qui).
Viaggia lisergicamente ed erboristicamente un po', giusto quel tantino che basta per aprire le porte della percezione e sognare mondi alternativi (sempre meglio che sforacchiare vietnamiti, converrete) e si innamora dell'ereditiera dagli enormi occhi azzurri, bellezza patinata stile playboy ma sana ragazzona americana e hippie nell'anima, si intuisce. Causa netto rifiuto della suddetta di accompagnarsi biblicamente a lui per una notte, dopo bagno collettivo nel laghetto, parte comunque.
Berger, leader indiscusso dal sorriso conquistatore che in altri tempi starebbe alla Casa Bianca e non a cazzeggiare per Central Park con addosso un ridicolo gilè a fiorami e un ciuffo imbarazzante che non vede balsamo da un lustro almeno, decide di andare a trovare l'amico portandosi dietro la fanciulla e la cricchetta di fricchettoni, per dare un giocoso ultimo addio all'amico e la possibilità dell'ultima spupazzata con l'ereditiera prima del tutt'altro che improbabile appuntamento con la Nera Signora in terra d'Oriente.
Fanno la Mille Miglia, ingannano il posto di blocco della base (Berger sacrifica i capelli, pessimo segno) si sostituiscono ad un militare non sveglissimo e permettono a Claude di uscire dalla Realtà e di raggiungere la sua bella nel deserto. Berger si gode per un paio d'ore la vita da caserma.
E poi il Principio di Realtà brama la sua parte, c'è la guerra, tutti dobbiamo partire (leggasi: morire).
Berger è una comparsa sul palcoscenico sbagliato, anche lui, che sa recitare tutte le parti ed è un delizioso Dioniso sempreverde, scontra il musetto contro la parete grigia della vita. Caricato su di un aereo, i capelli, la sua forza, perduti, novello Sansone, gli tocca morire al posto di un altro: l'aver bruciato la chiamata alle armi, atto di intollerabile Ubrys, gli costa caro, un posto in una fila qualunque di un cimitero militare bianco ed elegante di lapidi tutte uguali è la solita ricompensa per chi decide di difendere una patria uccidendone un'altra. Let the sunshine in, è l'unica consolazione.
Se credo che abbia senso credere che una via pacifica abbia sempre un senso? Certo.
Le cose che vogliamo da un altro paese le possiamo comprare, e non farci la guerra per portargliele via per niente. La terra che uno ha dovrebbe farsela bastare, così come le risorse. Facciamo meno figli e ci staremo tutti. E non crediamo che le religioni giustifichino le nostre azioni: noi siamo il dio e il diavolo fuori di noi, li abbiamo creati per scaricare il barile, tanto vale capire che ci tocca fare una scelta, la responsabilità del vivere è tutta nostra. E il paradiso sarebbe qui, a cinque minuti, se smettessimo di volere quello che non ci serve.
Povero Berger, che non riesce ad avere la sua comunione con lo zuccherino lisergico, e per questo è condannato alla realtà...e nemmeno quella è la via di fuga.
Forse conviene appellarsi all'Acquario, capriccioso dio danzante, divoratore di figli, cantante della domenica, pigro risolutore del caos che lui stesso ha creato, certamente non un guerriero volontario ma un uccisore casuale...un dio perfetto, da idealizzare, da costruirci cattedrali, nel suo nome.

4 commenti:

Gillipixel ha detto...

Mi dispiace di non aver mai visto "Hair", Vale...ed ora che ho letto il tuo bellissimo scritto relativo, mi dispiace ancora di più :-) conto di riparare alla lacuna al più presto...

Sono felinamente d'accordo con le tue considerazioni riguardo ai giusti confini tra le libertà reciproche umane (sia individuali, sia fra popoli)...se ciascuno imparasse quella saggezza utile a capire fin dove può arrivare a posare i piedi, non li pesterebbe agli altri e non si troverebbe pestati i propri, qualche volta :-)

La visione di Hair cum Bagigia pisolantis, dev'essere un'esperienza mistica unica :-) vi invidio affettuosamente :-)

Commuoversi di fronte all'arte non è segno di debolezza, secondo me, ma di grande nobiltà d'animo :-)

Bacini a gattognao :-D

Visir ha detto...

E' un film interessante che ben descrivi, anche con alcune tue considerazioni finalmente originali e stimolanti.

In merito alla politica americana dal Vietnam (ma anche dalla guerra di Corea prima) sino ai giorni nostri, essa è paragonabile ad una delirante dittatura per come è stata gestita.

Le mistificazioni riguardo alle armi di massa, per giustificare l'ultimo conflitto in nome di un benessere democratico esportabile in Iraq con l'occupazione americana dove ora la popolazione infantile ha triplicato la malnutrizione è emblematico.
La guerra in Afghanistan? Per non parlare di tutto il sostegno fornito alle dittature del sud America non sono un commovente documentario sul disagio mentale di una nazione? Non stupisce che poi, si piangono addosso per l'11 settembre.
"Desertum faciunt et pacem appellant".

Se invece si vuole considerare il problema più esteso del conflitto cui gli umani ricorrono come prima soluzione dei problemi (quando generalmente si sentono forti) e non come ultima "chance", è emblematico del conflitto interiore che ogni persona è chiamato a pacificare prima di poter parlare seriamente di armonia condivisibile con i suoi simili.
Come è possibile aspettarsi la serenità mettendo insieme una moltitudine di capricci?

Personalmente non ho una gran stima dell'essere umano.
Gli voglio bene come si vorrebbe bene ad un bambino ritardato, ma assai stronzo che non sa cosa fa.

Fëdor Dostoevskij ha scritto: "A tutto si abitua quel vigliacco che è l'uomo".
E come dargli torto?
Assistendo alla pronazione quotidiana di milioni di "liberi" cittadini a sostegno di quel clan di bugiardi di professione che si fregiano del titolo di “politico” o “leader religioso”.

E' curioso dunque il finale del film dove si vede un gesto estremo di altruismo, scambiando il proprio Karma con quello di un altro, ammesso che anche quello non fosse già scritto nel Karma stesso.

In fondo penso che la vera umanità intesa come la summa dei sentimenti più grandi e generosi non si possa generalizzare ma si possa vivere solo da persona a persona, da cuore a cuore, poiché questo è il limite e la grandezza dell'uomo.

Gillipixel ha detto...

- Ciao, Bagigia...

- Gnao...frrr...

- Cosa ci fai tu lì alla tastiera?

- Frrrgnao...

- Ah, la Vale ha poco tempo per il blog?...Non è che se n'è andata a fare shopping con la Magnifica?

- Uhmsssmmrrrgnao...

- Va beh, niente, salutamela, quando la vedi...ciao Bagi :-)

Vanessa Valentine ha detto...

Ahahahah, Gilli, è vero, dovrei mettere la Bagi a scrivere sul blog...risultati migliori, anche, probabilmente...:))))))
Diciamo una settimana un po' pienotta...ecco...
L'arte deve commuovere, secondo me, nel senso che deve proprio smuoverti dentro un sacco di sensazioni...poi, mi fa anche piangere, non so perché, una sinfonia, un quadro bello, una poesia...forse perché penso che tanta fatica umana nell'arte è l'unico modo per restare vivi, negli altri, almeno per un po' di tempo...no?:)))))))))