giovedì 19 novembre 2009

Buone letture

Almeno questi tre giorni a casa, a parte il rimbambimento post influenzale, hanno avuto il merito di farmi smaltire un po' di arretrato libresco.
Esco a fatica dalle profondità del mio divano con gli occhietti scintillanti di commozione e ammirazione a lettura finita di "Un passato imperfetto" di Julian Fellowes, edizione al solito sontuosa e grassa Neri Pozza.
Ambientato ai giorni nostri, racconta di un malinconico quasi sessantenne scrittore, di medio successo, di medie entrate, contattato da un vecchio ex amico di gioventù, il fulgido Damian Baxter, campione di tutti i parvenu mai esistiti. Il quale, approfittando dell'amico bruttino e timido ma ben inserito nell'aristocrazia inglese degli anni Sessanta, penetra il tenero nido escluso ai miseri mortali e come un cuculo seducente sgomita per farsi strada nella high society un po' meschina, molto snob e parecchio crudele in grado di accettare solo i propri pargoli, benché scemotti e tronfi, e spregiando al contempo il sangue fresco e talentuoso di un figlio delle classi medie.
Ora però il Damian che tutti amavano ma che nessuno poteva accettare è gravemente malato, è uno degli uomini più ricchi sulla faccia del pianeta, e come tutti quelli che stanno per prendere l'ultimo espresso ha un sacrosanto desiderio:lasciare la propria fortuna al figlio segreto che non ha mai conosciuto. Infatti, agli albori dei '60, i letti cominciavano a farsi frizzanti e in breve tempo Damian aveva biblicamente conosciuto parecchie ragazze tutte più o meno nello stesso periodo. E una di loro, molti anni dopo, gli aveva scritto lamentando il triste destino affrontato di una maternità in solitudine. Damian sa anche che dopo una vacanza ferale in Portogallo (che avrà un posto importante nella storia) ha disgraziatamente contratto gli orecchioni, minando così le sue possibilità riproduttive successive. Quindi la rosa delle candidate si restringe a cinque donne, tutte variamente sposate e con prole, ma solo una ovviamente è quella giusta.
Il protagonista non ha tutta questa voglia di ributtarsi nella mischia del passato e dei ricordi: ha una noiosa ma placida vita con una donna di mezz'età, una gagliarda irlandese, e di Damian non vorrebbe sentir parlare a causa di vecchie ruggini, vecchi amori non corrisposti. Però quella di un moribondo è la classica proposta alla quale non puoi dire di no.
Così, con un generoso budget, il nostro scrittore si addentra nei territori della memoria, e contatta le donne, a distanza di quarant'anni. E mostra come il tempo, al solito impietoso e onesto, scavi i suoi fiumi carsici nell'anima della gente. Compie un viaggio iniziatico al contrario per esorcizzare i fantasmi della gioventù, gli amori perduti, i riti di un tempo, le beghe irrisolte. Ogni donna è un frammento di storia e di tragedia, imprigionata in riti ormai tramontati ma forti abbastanza da rovinare le loro vite, e minarle per sempre. C'è la principessa di un ipotetico regno dell'Est senza una lira, l'aristocratica che ha sposato un suo pari per obbligo adattandosi alla parte della castellana, amata anche dal protagonista; c'è l'americana che ha mandato a rotoli un matrimonio scappando con l'amante e adesso campa in California con le televendite, c'è l'altra nobilotta un po' zoccoletta per ribellione, ma dal cuore d'oro, e la migliore amica dello scrittore che a suo tempo cedette anch'essa alle lusinghe del bel giovane, spirito infrangibile d'amore e gioventù, simbolo da tutti venerato nel tempo, che la morte può solo rendere romanticamente eterno...
Il libro racconta i miti della gioventù aristocratica inglese dei Sessanta, le feste, la Stagione, i maneggi delle madri per piazzare le figlie come cavalli ad Ascot, le sbornie dei padri, i riti dei fine settimana in campagna, le cene brodose e insipide del tempo, la triste discesa dei nobili spiantati cui toccava vendersi un pezzetto di terra alla volta per mangiare, e poi passare agli arazzi e poi ai Reynolds...il tutto cercando di restare snob, noi qua, voi là, mentre la Thatcher avanzava calpestando tutti e tutto e l'Inghilterra cambiava faccia. Ti fanno quasi pena, lì a mangiare nei saloni vuoti, con su la giacca da camera di velluto, il loro pudding cucinato dalla stessa padrona di casa, ti ricordano la gente sul ponte del Titanic. E' chiara la fine che faranno, ma che ci possono fare?
Onde evitare che la Magnifica mi peli, visto che glielo devo prestare, non dico più niente.
Il libro è anche molto umoristico, Fellowes ha un bel modo di scrivere, sembra uno di quei signori rubizzi che trincano lo sherry accanto al caminetto e intanto si lagnano che non ci sono più le mezze stagioni. Sembra un po' un canto del cigno, però quando invoca i modi cortesi di un tempo (d'accordo, erano un filino ipocriti, ma nessuno è perfetto) paragonati alla rozzezza dei giovani londinesi moderni, si prova un moto di tenerezza, quello che proveresti per un vecchio zio che non si capacita del mondo in cui è costretto a vivere, e sbuffa.
Al solito, quando finisco un libro che mi è piaciuto molto, spremo sempre una mezza lacrimetta, piccola piccola, d'addio. Mi dispiace lasciarvi, dannazione, stavo così bene con voi! Mi avete dato così tanto!
"Se il tuo maggiordomo piange per la tua dipartita, significa che qualcosa di buono doveva pur esserci in te".
Grandioso, no?

5 commenti:

Visir ha detto...

Le buone letture sono un compagno di viaggio fedele e discreto nel breve tragitto della nostra esistenza.
Il libro da te commentato stuzzica un punto nodale della vita, cioè la possibilità di rimediare al passato.
Oggettivamente verrebbe da dire che questo è impossibile, ma l'uomo, si sa, è attratto dall'impossibile che spesso, a torto o a ragione, non è un dato di fatto, ma un'opinione.
Nello stereotipo del ricco senza cuore descritto dal libro è facile identificarsi nel desiderio che all'approssimarsi della morte si possa con un moto faustiano riconquistare la propria anima (rappresentata nel romanzo dal figlio).
Si estrinseca così il desiderio, neanche troppo inconscio, di esorcizzare la fine con un nuovo inizio.
Un atteggiamento tanto umano da essere parimenti tanto ingenuo.
E fino a qua mi pare di aver citato solo l'ovvio.

Sulla reale bontà di un gesto del genere poi, originato dal mero interesse egoistico, è da pesare con la bilancia della propria morale soggettiva.
Quello che mi interessa invece è comprendere come noi viviamo la nostra vita, spesso dominati dall'illusione di avere del tempo.
Rimandiamo a domani non tanto le incombenze materiali, ma quelle spirituali ed affettive che sono la vera ricchezza della nostra vita.
Poche persone desiderano conoscersi veramente, forse perchè la verità fa paura ed è come con le inondazioni del Nilo.
Il fiume deve rompere gli argini per donare, poi, nuova vita.

Parlavo qualche giorno fa con un caro amico, una persona profonda e vera. Un uomo raro per non dire rarissimo.
Mi ha detto: "La maggioranza guarda sempre fuori di se, occupandosi del mondo. Sono le cosiddette persone normali e in questa normalità vivono come in una prigione. Poi ci sono i pochi che sviluppano una visione introspettiva, ma anche la loro conoscenza di se stessi avviene per riflesso. Gli accadimenti, i problemi, i rapporti, determinano in loro un lampo. La luce dell'attenzione è riflessa da fuori a dentro. Sono più maturi dei primi, ma non ancora completi perchè la loro vista non è libera dal giudizio.
Pochissimi conoscono il modo di guardare se stessi senza una causa scatenante, osservando cioè semplicemente con questa luce e convergendola direttamente all'interno".

Personalmente lo trovo un discorso vero.
Penso inoltre che non è possibile sapere chi siamo se non sappiamo da dove veniamo.
E su questo ultimo punto ci sarebbe molto da dire, ma finalmente taccio.

Gillipixel ha detto...

Vale, io sto invece finendo in questi giorni un libro di cui parlasti tempo fa: Kafka sulla spiaggia :-) mi è piaciuto parecchio, è notevole, anche se a mio parere non è il miglior Murakami in assoluto...credo che ci dedicherò uno scrittino bloghesco prossimamente :-)
Invece quello che racconti qui mi ha fatto venire in mente "Quel che resta del giorno", di Ishiguro...lo so, è un'altra epoca, altre ambientazioni, ma la british nostalgia li accomuna in qualche modo...

"Onde evitare che la Magnifica mi peli, visto che glielo devo prestare, non dico più niente..."
ahahahahhah :-) siete due sagomacce, te e la Magnifica :-)

Lo scorso tuo brano, quello sull'influenza, non l'avevo commentato, non perchè non mi fosse piaciuto, ma perchè a volte mi sento in imbarazzo a farti solo complimenti :-) il tuo modo di scrivere è bello, fiducioso verso il mondo e pieno di stupori, con quella dose di onesto cinismo che non guasta, quando ci vuole :-)

Vanessa Valentine ha detto...

Visir, la tua analisi coglie nel segno. Il libro descrive la malinconia di un uomo che guarda il passato alle sue spalle, con disincanto e lucidità, facendo da controcanto all'ex amico che sta morendo. E' sacrosanto cercare di farsi eterni, con ogni mezzo.
E' anche il fallimento più amaro che siamo costretti a sopportare.
Non c'è niente che possa lenire questa pena se non cercare di vivere al meglio. Il problema è che spesso falliamo anche in questo...
Il tuo amico è un grande filosofo, è bello avere amici così cari e profondi.
Essere soli, invece, è maledettamente frustrante.

Vanessa Valentine ha detto...

"Quel che resta del giorno" me lo ricordo, mi era piaciuto, al cinema.
Ah, Gilli, i libri sono la consolazione più grande, se non esistessero mi sarei già suicidata mille volte di fila.
Ho commentato la tua "pre-censione" su Kafka, come avrai visto...ottima scelta evitare di raccontare troppo, devi appassionare la gente ma non gli devi bruciare il finale, pam!, come direbbero Aldo, Giovanni e Giacomo.:)))
Ocio altrimenti la Magnifica ti fa male...:))))
(Lei lo sa che scherzo!)

Gillipixel ha detto...

Sì, sì, Vale, ho letto il tuo commento, molto gradito, grazie :-)
"Quel che resta del giorno" merita molto anche come libro...
Che cosa aggiungere sulla lettura? Niente, se non che è il più sublime fra i rifugium pigrorum :-)

e...Mi fido di te: non vorrei mai incappare nelle ire della Magnifica :-)