Il fine settimana è stato tranquillo, con molta roba pulita da piegare, mucchi di giornali da smaltire, goulash da cucinare (ricetta non eccelsa, l'ultima volta mi era venuto meglio. Riproverò).
Sabato sera abbiamo visto "127 ore", la storia di quel ragazzo americano che è uscito per una gita da fine settimana nei canyon dello Utah ed è tornato a casa cinque giorni dopo (appunto le 127 ore del titolo, ora più ora meno) con un braccio solo. Il braccio destro ha dovuto purtroppo lasciarlo sotto il pietrone che l'aveva intrappolato cadendogli addosso mentre lui scivolava in una fenditura nella roccia. L'imprudenza, la gravità e la sfiga si sono date appuntamento per un avvenimento tutt'altro che lieto. Insomma, questo Aaron fa l'ingegnere ed è un tipo simpatico ma solitario (James Franco, già famoso come l'altalenante amico di Spiderman nella saga di Raimi ha una faccia da ganassa impareggiabile, e visto che il film è tutto sulla sua faccia e sul suo corpo, mi è piaciuto molto), gli piace farsi gli affaracci suoi, ha anche una bella morosa che però poi si scopre lo ha mollato perché appunto lui si faceva troppo gli affaracci suoi.
Non gli piacciono le folle (come dargli torto, nemmeno a me piace stare pressata in mezzo a un milione di miei simili, però è anche vero che in mezzo al mucchio, a volte, c'è da guadagnarci. La mia dannata natura cerchiobottista.)
Comunque, lui ignora abitualmente i messaggi della madre e della sorella al telefono, prende su la borraccetta d'acqua, due tacos e la torcia e SENZA DIRE AD ANIMA VIVA DOVE VA parte per la gitina fuori porta della sua vita.
Tutta la prima parte è ganzissima con lui che assapora la libertà delle corse sfrenate in mountain bike su e giù per i dirupi del canyoncione, si filma persino con la telecamerina ed è fatto come un caco di adrenalina, casca, pure, e ride lo stesso. Meravigliosa, sfrenata gioventù.
Premessa: non ha neanche il cellulare perché lì non prende.
Incontra anche due ragazzette e vanno a farsi tuffi e nuotate in anfratti magici scavati nella roccia (tanto per far capire che lui il canyon lo conosce come le sue tasche), si danno appuntamento per una festa la sera dopo e si separano. Sulle ragazzette il Nostro ha ovviamente fatto colpo (e come biasimarle).
Lui è lì che salta da una roccia all'altra come un camoscio quando purtroppo succede il fattaccio: scivola e, come si diceva poc'anzi, il masso - nemmeno troppo grande, ma comunque carogna, tondo e scabro - gli intrappola il braccio. E qualcuno ha commentato, e gli è andata bene, pensa se lo prendeva in testa.
Da qui in poi il film diventa tutto uno split screen con le allucinazioni del ragazzo che passa attraverso tutte le fasi logiche legate alla situazione: rabbia, furore, mente fredda, di nuovo rabbia e furore, abbattimento e depressione, momenti di illogica allegria legata allo stralunamento da sete, fame e dolore. Il regista è Danny Boyle, quello di "Trainspotting" e "The Slumdog Millionaire", bravino e furbetto (anche David Fincher è furbetto ma, secondo me, è un po' più bravino. Comunque sono al solito opinioni personali che lasciano il tempo che trovano).
Ha anche un sacco di allucinazioni sul passato,, sulla famiglia, su quello che poteva essere e non è stato, insomma, è incastrato con il guano al mento e la situazione non promette miglioramenti.
E alla fine si arriva alla dolorosa, fatidica decisione: visto che comunque il braccio è sotto la roccia da cinque giorni e ormai vira al blu/nero, perso comunque, lui fa la tremenda scelta che lo salverà: si amputa il braccio da solo, con un coltellino di quelli che non tagliano nemmeno la buccia di una mela. Se lo pianta dentro e riesce a tagliare tutto, più o meno a metà avambraccio.
Dico solo che la coppia vicino a noi si è tenuta le mani sugli occhi un quarto d'ora, si capiva che lui era pentito di avercela portata quanto lei di averlo seguito.
Alla fine sfatto, sfinito, sanguinante, riesce ad uscire dal maledetto buco, solo che è senza forze, anche se si è buttato a bere un'orrida acqua fangosa che sembra piena di girini come se fosse alle terme di Fiuggi. E' chiaro che da solo non riuscirà a fare nemmeno dieci metri.
Destino o fortuna vogliono che incocci in una famigliola che lo soccorre: com'è bello vedere i visi preoccupati di altri esseri umani che si mettono a correre in cerca di aiuto!
Arrivano altre persone e anche l'elicottero.
La morale racconta che lui, dopo quest'esperienza mostruosa, non ha smesso di praticare sport estremi (usando varie protesi per il braccio mancante), ma comunque lascia sempre un biglietto con scritto dove va. E' diventato famoso, si è sposato e ha avuto un figlio. Lui si è dato la spiegazione che per tutta la vita, sua e della roccia, questa appunto era sempre rimasta in attesa del suo arrivo. Martirio ma anche opportunità, si potrebbe dire.
Il film mi ha ricordato "Nelle terre estreme", la storia di quel ragazzo che rifuggiva, contestandola, la società e le sue illusioni, in realtà partendo da una famiglia problematica.
Ognuno riflette come preferisce sulla questione. Si può essere dei solitari ma amare il gruppo e il conforto che esso offre, fin dagli albori. La certezza di una spalla alla quale appoggiarsi, il calore, la sicurezza.
Anche in una natura selvaggia, bellissima e indifferente è confortante vedere il passaggio di tutti quelli che ci hanno preceduto (le pitture rupestri che lui vede uscendo dalla cavità, quindi rinascendo, sono figurine in processione di tanti esseri umani, uno dopo l'altro, insieme).
Nei nostri simili è bello perdersi, anche, certe volte. Restare noi stessi sì, ma anche accettare che ci mettano l'odore addosso, che ci facciano un po' loro. E che ci salvino, beh, sì, anche dalle nostre manie.
E oggi la Magnifica mi ha mandato un messaggio: noi siamo contentissime, vero? Certo che lo siamo: siamo le Colin's Girls, e lui ha vinto l'Oscar.
Colin Firth nostro, quanto sei fico, quanto bene ti vogliamo, la Magnifica ed io.;)
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