sabato 2 luglio 2011

Colloqui di lavoro buffi per posti strambi ( e poi comunque non mi hanno preso)

Il lavoro, si sa, è una delle grandi incognite di questi nostri tempi travagliati.
Più spesso, ohimè, la sua assenza, ma anche la sua inveterata presenza, se non piace, se è noioso, se è pesante, se è imposto, sono situazioni esistenziali che gravano sulle nostre spalle, come scimmiette malefiche che è impossibile scrollarsi di dosso. E così sopporti per anni un gravame che non ti va ma che ti mantiene, spesso male. Del resto travagliare è un verbo che indica bene lo stato d'animo (anche quando hai un bimbetto in panza e devi obbligatoriamente farlo uscire attraverso una via erta e perigliosa, tutt'altro che confortevole).
Prima del sospirato lavoro c'è però un'altra cosa che va affrontata. Il colloquio con quello che sarà il tuo datore di lavoro, il tizio che, se va bene, ti stipendierà per un po' di tempo in cambio del tuo portare il culo cinque mattine su sette in un altro posto che non sia il salotto di casa tua.
Tutto il concetto del lavorare è, a modo suo, contorto e perverso. Ormai dovremmo essere in grado di mantenere la gente senza farla eccessivamente sudare e stancare...siamo nel terzo millennio, ecchecacchio. Gli ottimisti ipotizzavano colonie su Luna e Marte e invece siamo ancora qua su questo bel pianeta che scoppia, e meno male che le donne prendono la pillola, che se stavamo ad ascoltare i preti a quest'ora eravamo venti miliardi. Non è che si balli il tango per quanto stiamo larghi ma insomma. In definitiva potremmo anche starcene in panciolle a goderci la brezza sul volto mentre le macchine lavorano per noi ma: 1) non hanno ancora inventato una macchina che sposta le carte da una stanza all'altra, a parte le ruspe; 2) non ne hanno inventata nemmeno una che infila le mutande in lavatrice al posto mio; 3) idem per i piatti sporchi; 4) la via verso l'inattività in amaca è ancora, purtroppo, distante e remota. I puntigliosi ricorderanno quanto ci si spaccava la schiena fino a sessant'anni fa. Grazie, ragazzi, l'ho ben presente ma non è l'argomento del post.
Dicevo, i colloqui di lavoro. Come tutti, ne ho avuti (è un po' come per le relazioni, ti puoi sempre vantare di essere andato con qualcuno veramente fuori di testa, smentirti sarà difficile).
Dopo la laurea ho avuto il mio primo periodo sabbatico - a mio avviso i migliori periodi della mia vita: non mi è successo niente di eclatante ma nemmeno niente di particolarmente orrendo, perciò li considero dei successi esistenziali. Vegetavo piena di foglie e fiori attaccata al muro della vita, non mi chiedevo dove andare perché sentivo di essere già arrivata. Va da sé, questa prospettiva veniva bollata come incapacità di quagliare una carriera, una vita, un posto nella società. Quando si dice non venire compresi dai propri simili.
Al tempo le inserzioni di lavoro si leggevano sui giornali. L'attendibilità era facoltativa.
Un pomeriggio estivo, già bello canicolare, avevo un colloquio per un posto di commessa in una libreria. Cosa capireste, voi? Vi viene in mente un posto tipo la Feltrinelli, anche più piccolo, pigli i libri dal magazzino, li metti sullo scaffale, li vendi, li tieni in ordine. Era il sogno della mia vita: ero disposta financo a lavorare, pur di stare vicina ai libri.
Mi hanno bidonato. Avrei dovuto mangiare la foglia quando ho visto la palazzina pulciosa e scrostata. Il tizio che mi faceva il colloquio, un tipetto in giacca blu e con dentini da piranha, col riportino, membro di una nota casa editrice che vende libri per corrispondenza. Il loro concetto di commessa era fermare la gente per strada, piantargli una noce fino a sfondargli le animelle e imprigionarli per sempre in una rete di libri acquistati, involuti, e lasciati a marcire sullo scaffale di casa. Me ne andai piuttosto dignitosamente, precisando che non avevo attitudine a vendere alcunché.
Il mese dopo, stesso caldo canicolare, palazzina diversa, un po' più lussuosa, ma dovevo piazzare libri di legge. Quell'anno andava l'inserzione per le commesse, si vede. Stavolta mi azzardai perfino a dire che le inserzioni ingannevoli, ne ero sicura, dovevano essere sanzionate dalla legge. Che adorabile minchiona. Loro non si capacitavano che non accettassi. Chissà, avrò sbagliato io, ma non sono proprio capace di convincere la gente a comprare. E sì che sono una chiacchierina. Ma trovo abominevole rompere le palle ai miei simili per rifilargli qualcosa che non gli serve.
Passavano i mesi.
Ve li butto lì così, come me li ricordo, i lavori che avrei dovuto ottenere.
Tramite una specie di cugina di secondo grado sarei dovuta andare a Roma in serata, fare un colloquio con un tizio ed essere assunta alla Vodacomtre. Insieme ad un'altra ragazza più giovane, entusiasta. Se ci penso adesso la cosa mi sembra un po' sospetta e inquietante, ma io sono diffidente come un gatto, magari non era niente di che. Certo che una può anche pensar male. Alla fine non se ne è fatto niente perché il tizio è sparito, o lo hanno arrestato o ha trovato altre due deficienti per fare mucchio al suo partouze settimanale, magari pure più gnocche di noi. Vallo a sapere. Con la Vodacomtre ho bissato anni dopo quando mi hanno sequestrato per un pomeriggio per insegnarmi a diventare una perfetta call centrista, rincoglionendomi con tariffe flat, up, red, sgnek e flup, e se uno chiama la Patagonia alle sei del pomeriggio risparmia due centesimi. Inutile dire che il cervello mi si è spento subito e mi veniva da piangere. Presente il film "Tutta la vita davanti"?, gente così, entusiasmo entusiasmo. Detesto l'entusiasmo aziendale, fasullo, da tutti amici davanti e da mettiti un po' a novanta, amico, dietro. Più il lavoro è inutile e fa perdere tempo e più tutti saltellano. E' una legge newtoniana.
Cambio di scenario.
Inserzione: cercasi segretaria per agenzia di viaggi. Anche qui, grandi aspettative e illusioni, che bello finalmente potrò usare un po' del mio utilissimo inglese scespiriano, che soddisfazione. Il colloquio coinvolgeva una miriade di ragazze ammassate in uno stanzone spoglio, con due tizie dall'aria equivoca ad addestrarci. Alla fine di un'interminabile attesa arrivò Lui, tutto denti e capelli gellati col ricciolino sulla fronte. Aveva bisogno di telefoniste in grado di vendere viaggi farlocchi a sventurati ignari in buona fede. La truffa era così plateale che non mi stupì vederlo a Mi Manda Raitre qualche tempo dopo, sbranato dalla gente inferocita e senza aver viaggiato mai, ovvio. Nel frattempo la Guardia di Finanza aveva sigillato tutto.
Cominciavo a sentirmi scoraggiata.
Mi veniva da chiedermi, ci sono posti di lavoro onesti, in questo paese? Specialmente per le donne...dico io, se cercate una telefonista, ditelo, così una si fa un'idea.
Se cercate una che bidoni un'ottantenne un po' sorda, ditelo chiaramente. Tirate fuori le palle, bastardi, e ditemelo in faccia. Ditemi che cosa siete e che volete, così avrò modo di dirvi chi sono io e cosa non voglio.
Tralasciando un colloquio recente, durante il quale il pur tranquillo signore che mi faceva le domande e che vendeva frigoriferi per il mondo (un lavoro import-export, e onesto!, pare), ha purtroppo inserito un verbo gergale e indice di una assai diffusamente praticata attività umana così, en passant, nella conversazione, senza per carità fare profferte, ma già il fatto che avesse potuto pensare quel verbo in un contesto e con una persona che con quel verbo non c'entravano niente non mi è garbato affatto. Tirato lo sciaquone senza rimorsi, ai colloqui di lavoro bisogna essere impersonali e gentili, non è che solo perché sono una donna puoi tirare fuori tutte le corbellerie che ti girano nella zucca.
La gemma splendente tra tutti i colloqui, infine, è stata quella della ditta che produceva e vendeva manichini. Manichini.
Chissà cosa mi diceva il cervello, quando ho risposto all'inserzione.
Zona industriale, struttura solida ed elegante, staff gentile, preciso, puntuale. La giornata era un po' da cappa plumbea pre-temporalesca, le nuvole veloci correvano nervose dietro alle vetratone dell'atrio, mi fanno entrare in una saletta da riunioni e lì parliamo delle mansioni, di soldi, di ferie. Le solite cose. La maglia che porto è un po' troppo pesante, già ho caldo e mi manca l'aria, sento qualcosa che ho già provato, un vago panico, un nonsoche, le gambe molli. Penso che una golia basterà ad alzarmi la pressione, sempre bassa. Il tizio che mi fa le domande è bello, tra l'altro, mi ricorda un felino tranquillo ma letale, i capelli castani e lisci, gli occhi verdi e lunghi. Per tutto il tempo continuo a sentire un drin drin d'allarme, e non so.
Alla fine ci salutiamo e mi riportano nell'atrione, le faremo sapere, sì, certo grazie, arrivederla, arrivederci. E alzo lo sguardo.
Una processione di manichini nudi mi guarda, accomodata lungo tutto lo scalone che porta al secondo piano, e che prima non avevo notato (chiaro, io non osservo mai, non quello che serve). Ce n'è per tutti i gusti: maschi, femmine, seni appena abbozzati o più generosi, spalle lisce e larghe, torsi, braccia, teste chine, capelli di plastica lunghi o corti, sorrisi da sfinge e sempre, comunque, quei loro spaventosi occhi vuoti e fissi che mi seguono, che mi guardano, lo so che lo fanno appena mi giro, lo so. E resto basita, incredula al pensiero di essermi infilata da sola nella loro tana, che se questi saranno tanto fessi da prendermi dovrò stare da sola con loro, passare i pomeriggi vicino a loro, passargli vicino salendo la scala. Ma che orrore. Le loro braccia potrebbero afferrarmi, tenermi, rapide. Ho il terrore di manichini e burattini e bambole grandi e immobili che mi osservano fredde per catturarmi e portarmi nel loro mondo vuoto e immobile e senza vita e luce.
Sorridono tutti malevoli mentre arretro e l'atrio si fa più scuro, per il temporale.
Esco con le prime gocce, grata alla pioggia, ai lavori di guano, alla possibilità di raccontarlo a qualcuno, alle gambe che mi fanno muovere.
Poi ho anche lavorato, in altri posti, ma chissenefrega, è solo travaglio.


8 commenti:

Salazar ha detto...

Strano, io un colloquio di lavoro mica l’ho mai fatto. Uno vero, perlomeno.
Quando ero al Politecnico a Milano ho conosciuto un tipo, un collega studente, uno biondo che andava in giro in moto tutto l’anno, con la pioggia, il vento e il freddo.
Un giorno mi dice: vieni giù alla casa editrice, fai qualche ora, tappi qualche buco, così guadagni due lire. E così ho fatto qualche ora, ho tappato qualche buco e ho guadagnato due lire: ne avevo bisogno proprio, studente squattrinato ero.
Qualche tempo dopo, sul lavoro, incontro in corridoio il capo del capo, non quello megagalattico ma quasi. Una donna, si chiamava Donata.
La prossima settimana mi laureo, butto là.
Ti sei tagliato i capelli troppo corti, dice lei.
Ah!, dico io.
Cominci a lavorare fisso fra due settimane, dice lei.
Ah!, ridico io.
E i primi cinque anni della mia vita lavorativa erano cominciati

Poi il secondo lavoro, sempre nel giro delle attività (quasi) artistiche: suona il telefono una mattina di ottobre, io rispondo e una voce nota dice, anzi no, afferma: vieni domani!
Dove?, dico io.
A lavorare, coglione! Dice lui.
Ah!, dico io.

Terzo lavoro. Il famoso ribaltamento del calzino: mi sono messo in proprio in una attività che non aveva nulla, ma proprio nulla nulla, a che fare con quello che avevo fatto fino al giorno prima.
Dicono che la vita vada così, a volte: bizzarramente. Ma gli anni sono passati, tanti anni, e io mi trovavo benissimo a fare quello che facevo, e anche non guadagnavo male.
Poi il lavoro cominciò a diminuire e la mia insofferenza ad aumentare. Stava finendo il millennio e i mercati ed io diventavamo sempre più nervosi.
Il colloquio che ebbi con me stesso di fronte allo specchio fu all’insegna della più crudele sincerità: sono stufo e nauseato – dissi guardandomi dritto negli occhi – voglio andarmene fuori dai coglioni, sparire e basta.
Ah!, disse lo specchio.

Sei anni dopo, in Brasile (sei anni di totale ozio e infingardaggine), passo davanti ad una cosa chiamata “Instituto de Linguas”. Blocco la macchina, entro e chiedo alla segretaria di parlare con il direttore.
Un tale là di fianco alza la testa e dice: ah!?
Era Agripino, il direttore.
Io sventolo il passaporto e dico (a questo punto il dialogo continua in portoghese, ma traduco per il conforto dei lettori): sono italiano, posso insegnare italiano qui?
Lui mi porta in un giardinetto lì vicino, con tanto di banani e papaye, mi fa sedere, mi da un caffè e comincia: Gentile, Cabrini! Conti!
Ah??!, dico io.
Paolo Rossi, dice lui allargando le mani, come dire: come non capisci?
Un mese dopo lavoravo. Professore! Che strano sentirmi chiamare così: bizzarra la vita, no?

E ancor più strano è che al Instituto de Linguas c’è collegata un’università (è di serie C, ma sempre università è), e in questa università c’è un Instituto de Historia. E ben lì che sono arrivato.
Al prossimo colloquio di lavoro, VV, adesso sai cosa devi dire.
Ah!?

Anonimo ha detto...

Anch'io di colloqui di lavoro seri ne ho fatti pochi, me ne ricordo uno per una banca poco dopo il diploma superiore, e tutti gli altri sono sempre stati abbastanza informali, quando non inesistenti, spesso per il fatto che c'era l'amico dentro che vi lavorava. Che colloquio vuoi fare, per esempio, per lavorare allo sportello dell'agenzia ippica di Venezia, mio periodo bukowskiano che ricordo sempre con affetto?

Visir ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Visir ha detto...

Caro Salazar,
E' proprio vero le occasioni una volta colte si moltiplicano. Come si dice in giro: "Il nostro destino spesso ci aspetta sulla strada che abbiamo scelto per evitarlo".

Nella mia vita gli incontri importanti non li ho mai trovati ma li ho semplicemente incontrati.

Anche nel lavoro come nel nostro quotidiano siamo sempre in balia di una serie di circostanze che fluiscono nel grande Caos dell'esistenza cui spesso tentiamo di darne una senso.
Il senso, però non è qualche cosa di astratto e lontano da noi, ma è proprio in quello che stiamo facendo e con chi lo stiamo vivendo, almeno questo è il mio modo di essere.

Senza una persona da amare alla fine siamo tutti persi perchè è sempre l'altro che da una ragione alle nostre fatiche.

Graize del tuo commento "vero". :D

Vanessa Valentine ha detto...

Secondo me, Salazar, non ce la racconti giusta...a parte un cervello di prim'ordine che ha frequentato il Politecnico, ammetti di essere anche un figaccione che ferma le cape megagalattiche nei corridoi con il tuo fascino maschio...l'atteggiamento zen con il tuo ah! stupito ha fatto il resto.:)))))))
Concordo con Visir nel trovare molto intenso il tuo racconto. Decisamente, i colloqui allo specchio sono sempre giri di boa esistenziale, da prendere molto seriamente. Se solo io fossi in grado di ascoltarmi...
E ora sei in Brasile, appagato, a quanto pare...o almeno in infradito, in spiaggia, una buona parte dell'anno, con la birra ghiacciata e sode fanciulle brasiliane attorno.
Il tuo specchio ti ha consigliato benone.
Solo non vorrei che il mio ah! fosse preso per un gemito di entusiasmo...non potrei mai perdonarmelo...:)))))))))))

Vanessa Valentine ha detto...

Soglia,che meraviglia avere avuto un periodo bukowskiano puro...ti credo che te lo ricordi ancora...vado pazza per quell'uomo, quante incredibili ore di compulsiva lettura, su di lui...:)))))))
Mi saresti diventato un bancario per nulla allegro.

Salazar ha detto...

Beh, si, è vero: un po’ l’ho raccontata con gli occhi azzurri, la storia.
In quegli anni a Milano l’economia tirava di brutto e io (architetto / politecnico / non molto figo / capelli troppo corti) ero un piattino niente male per la ditta: tutti sapevano che sarei entrato direttamente senza passare dal via una volta laureato.
Anche perché tappavo buchi e facevo ore di sabato e domenica – quando gli altri se ne stavano a casa a grattarsi le parti innominabili – già da un paio d’anni.

Appagato? Si, ma più che altro sorpreso, devo dire. Mai e poi mai avrei pensato di fare l’insegnante, non che non abbia i titoli per farlo, anzi, solo non ci avevo proprio mai pensato. E comunque in Italia, anche pensandoci, sarebbe stato impossibile.
Ha ragione Visir: giri la maniglia della porta e si apre la finestra, ma mica ti sorprendi: sembra la cosa più logica.

Che poi nella mia università gli studenti siano divisi in 30% maschietti e 70% femminucce, credo sia soltanto un effetto collaterale dovuto all’apertura della finestra.

Vanessa Valentine ha detto...

La vita è piena di finestre, per fortuna...se tieni duro un minimo, una boccata d'aria fresca in faccia ti arriva sempre.
E poi bisogna essere anche pronti a farsi portare lungo altri sentieri, seguire altre bricioline, chi lo sa.
Bisogna giocare, comunque. E' l'unica.
Così si approda al nirvana del 70% di studentesse...;)))))))) come premio.